La Brigata Stella Rossa
Mario Musolesi, il "Lupo", fu uno dei fondatori, nonchè il comandante, della Brigata Stella Rossa, che dal novembre del 1943 combattè il nazifascismo nei Comuni di Marzabotto, Monzuno, Grizzana Morandi, in Emilia Romagna. La brigata era composta prevalentemente da ragazzi molto giovani ed ebbe la caratteristica di iniziare la propria battaglia armata contro il nazi–fascismo dopo il proclama di armistizio di Badoglio dell'8 settembre 1943, sfidando apertamente la sancita impossibilità, stabilita dai politici antifascisti, di poter condurre la guerriglia partigiana nella zona bolognese dell’Appennino toscoemiliano. Il passaggio dall'organizzazione a tavolino, costituita da sabotaggi e dalla ricerca di nuovi militanti partigiani, alla vera e propria clandestinità avvenne per un'iniziativa di Lupo. Essendo ormai risaputo in paese cosa stesse organizzando il Lupo con i suoi compagni ed amici, anche in ragione della comparsa di manifesti antifascisti, un ufficiale della milizia fascista fece il nome di Lupo che, per tutta risposta, raggiunse il camerata presso la sua abitazione e lò affrontò a mani nude, senza l'utilizzo di armi. Lupo venne subito arrestato dai Carabinieri, ma il suo compagno Sammarchi si recò dal maresciallo dei Carabinieri e, revolver alla mano, lo costrinse a rilasciare il suo Comandante: a questo punto la scelta della montagna e della relativa clandestinità per la brigata partigiana fu obbligatoria. A Monte Sole si iniziò a costituire la brigata che oltre ai locali poté contare su alcuni soldati inglesi fuggiti da un campo di concentramento. La banda crebbe rapidamente anche grazie alla fama ottenuta del comportamento di Lupo e la aua prima azione fu il deragliamento di un treno, tramite uso di esplosivo, in zona di Grizzana, sulla direttrice Bologna–Firenze, con la distruzione di cisterne di benzina ed automezzi tedeschi. Da lì l'azione della brigata partigiana autonoma crebbe esponenzialmente grazie al coraggio degli aderenti ma anche alla capacità di organizzazione instancabile di Lupo. Gli atti di guerriglia portarono seri danni all'efficienza dell'apparato comunicativo dell'esercito tedesco tramite sabotaggi ed assalti a veicoli di trasporto truppe. Anche in campo aperto la Brigata dava del filo da torcere ai nazifascisti: quando una divisione tedesca attaccò la zona tra Sasso, Grizzana, Marzabotto, La Quercia e Vado, dopo ben 15 ore di durissimi scontri con i partigiani della Stella Rossa, i nazifascisti lasciarono sul campo circa cinquecentocinquanta morti e un numero ancor maggiore di feriti. Nel settembre 1944 l'offensiva della Stella Rossa si fece sempre più costante e la risposta dei nazifascisti, ahimè, non si fece attendere. Il feldmaresciallo Albert Kesselring, infatti, aveva scoperto che a Marzabotto agiva con successo la brigata Stella Rossa e voleva dare un duro colpo a questa organizzazione e ai civili che l'appoggiavano. La Brigata si difese strenuamente dopo lunghi scontri con l'uso di armi pesanti da parte dei nazi–fascisti, ma fu obbligata a ripiegare a causa del numero superiore messo in campo dagli avversari e dalla presenza di armamenti pesanti. Grazie ad un gran volume di fuoco con armi leggere e bombe a mano, i partigiani della Stella Rossa riuscirono a ripiegare ma non riuscirono, pur combattendo, ad evitare il rastrellamento. Durante la battaglia il Comandante Lupo morì, ma il suo corpo venne ritrovato soltanto un anno dopo. Nell'attacco contemporaneo al rastrellamento fu impiegato anche il già tristemente noto Reparto 16 dell'esercito tedesco: reparto corazzato di ricognitori facente parte della SS–Panzergre–adier-Division Reichsfuhrer SS, comandato dal maggiore Walter Reder. L'operazione di accerchiamento terminò alle prime luci del giorno del 29 settembre 1944: da tale giorno e fino al 5 ottobre i tedeschi continuarono ad effettuare rastrellamenti ed esecuzioni, compiendo il noto e terribile eccidio di Monte Sole, a Marzabotto. La strage di Marzabotto fu uno dei più gravi crimini di guerra contro la popolazione civile perpetrati dalle forze armate tedesche e dai fascisti italiani in Europa occidentale. “Le truppe si mossero all'assalto delle abitazioni, delle cascine, delle scuole, e fecero terra bruciata di tutto e di tutti”, racconta un testimone superstite. La popolazione atterrita si rifugiò all'interno della chiesa di Santa Maria Assunta raccogliendosi in preghiera ma dopo poco al suo interno irruppero i tedeschi, che fucilarono tutte le persone lì rifugiatesi, senza distinzione alcuna. Fu l'inizio della strage: ogni località, ogni frazione, ogni casolare fu setacciato dai soldati nazisti e non fu risparmiato nessuno. L'azione di rastrellamento posta in essere dal 29 settembre al 5 ottobre del 1944 causò la morte di 770 civili inermi.
Bruno Neri, un calciatore partigiano
«Qui ebbe i natali Bruno Neri, comandante partigiano caduto in combattimento a Gamogna il 10 luglio 1944 dopo aver primeggiato come atleta nelle sportive competizioni, rivelò nell’azione clandestina prima nella guerra guerreggiata poi magnifiche virtù di combattente e di guida esempio e monito alle generazioni future»
Iscrizione sulla lapide posta presso la casa faentina di Bruno Neri
Raccontano che Bruno aveva preso la decisione di unirsi ai partigiani all’improvviso, rapida e accecante come un tiro al volo scagliato dal limite dell’area all’incrocio dei pali. La sua vita sarebbe potuta continuare abbastanza tranquillamente nel dramma della guerra intorno, tutelata dal suo status di campione del calcio, nonostante tutto. Ma l’8 settembre aveva messo tutti i giovani italiani di fronte ad un bivio. Tornare a casa e imboscarsi nei granai e nelle fogne per sfuggire ai rastrellamenti, oppure imbracciare un fucile e raggiungere i traditori repubblichini di Salò a fianco degli invasori nazisti o combattere per difendere e liberare le proprie case e le famiglie e unirsi alle bande partigiane sulle montagne. Egli decise di unirsi ai partigiani. Mitra e scarponi al posto di scarpini bullonati e olio di canfora. Circa un anno prima di quel 10 luglio 1944. Ora, Bruno, stava salendo verso il cielo, zigzagando insieme al suo compagno di lotta Nico, elastici come molle e rapidi come uno stambecco in fuga. La brezza calda avvampava le guance abbrustolite e seccate dal calore. Gli occhi stretti, chiusi come una feritoia di garitta, celati al bagliore del cielo fosforescente dalla visiera del berrettino dell’Esercito degli Uomini Liberi. Termidoro, mese dei rivoluzionari sanguinari e accecati di puro furore di libertà, si allungava indolente in quella prima estate di guerra di liberazione, mentre i due uomini si inerpicavano lungo l’irregolare e sbilenca mulattiera che si accoccolava fino a Gamogna: un puntino sulla carta geografica, un nugolo di case in pietra, una manciata di lapidi nel cimitero e la tonaca lisa di un vecchio parroco. Salivano, i due partigiani, verso l’eremo in cerca di Corbari, il quale da settimane non dava più indicazioni sulla sua posizione — questo mi preoccupa non poco. Quel pazzo di Corbari. Solo contro tutti. Il Robin Hood di Faenza — rise Nico, mentre non riuscivano a dissimulare l’apprensione. Un soffio di luce illuminava le due sagome partigiane che avanzavano tra sterpaglie, faggi, noccioli e querce. Attraversavano dune di verde assopite nel frusciare del vento, come due ombre luminose stagliate in segmenti d’azzurro. Erano quasi le due del pomeriggio. Il sole era una sfera di cuoio incandescente come un pallone da calcio che ti colpisce in pieno viso. Gli Sten a tracolla ondeggiavano ardenti e la guerra, vista da lì, pareva uno spietato dottore tedesco sulla Linea Gotica, infagottato in un goffo cappottone rattoppato e sdrucito. Una pericolosa insidia fra i monti azzurri dell’Appennino Tosco–Emiliano che rimbombavano dei sordi tonfi di cannone distanti. Rammentava di un pomeriggio di dicembre, dietro le vetrine del Caffè Sangiorgi, appannate dall’aroma delle cioccolate calde e dal fumo acre delle sigarette senza filtro risparmiate dal razionamento. Il Caffè Sangiorgi, che ancora oggi sta all’angolo con Via Mazzini nel pieno centro di Faenza, in cui Silvio Corbari — quel pazzo anarchico– aveva irriso i caporioni del Fascio locale e addirittura il podestà in persona. Aveva bevuto gomito a gomito con tutti loro– che non lo avevano riconosciuto nonostante fosse ricercato da tempo– e ad un tratto, rivolgendosi agli allibiti camerati, rovesciò i ritratti del Duce sul pavimento e stracciò le lugubri insegne che ornavano la sala. Fece questo prima di fuggire verso le montagne e solo dopo aver fatto morto un repubblichino che lo aveva riconosciuto. Ora anch’egli e Nico stavano cercando Corbari, ma per aiutarlo e convincerlo ad unirsi a loro. Salendo verso l’azzurro e il verde non potette non pensare al prato di fronte alla chiesa di San Domenico e ad un pallone. Prato dove aveva iniziato a tirare calci fino a sbrecciare il muro. Da dove avrebbe spiccato il volo verso la Fiorentina del Marchese Ridolff e poi la Lucchese e poi il Torino che si stava attrezzando per divenire il Grande Torino, quello dello schianto e del Mito. Per poi indossare la maglia azzurra e sconfiggere i tedeschi sul prato verde. Qualcuno, nella retorica del regime, gli aveva detto che avevano onorato la Patria sconfiggendo i tedeschi sul campo. Per lui era solo calcio. Per lui che credeva che la patria di tutti fosse il mondo intero. Per lui che unico, immortalato in una fotografia in maglia viola, non fece il saluto romano come imponeva la prassi di regime prima dell’inizio di una gara ufficiale per l’inaugurazione dello Stadio Berta di Firenze.Per lui calciatore istintivo e generoso campione. Un misto di classe e di grinta erculea. L’uomo che entrava in ultimo tackle disperato contro l’avversario e con pulizia essenziale lanciava il proprio compagno verso il gol. Cuore e genio. E con la stessa inclinazione era diventato partigiano. Per amore della libertà. Come Nico, il suo compagno di salita. Come Corbari, che probabilmente era rimasto tagliato fuori dai lanci alleati e cercava un varco verso il Monte Lavane per recuperare i ri ornimenti.Silvio Corbari e la sua bandaccia di fieri partigiani anarchici.– Quel pazzo — disse Berni a Nico ad un tratto, passandogli una sigaretta con l’espressione sottoscritta da un ghigno di sottile ammirazione e di preoccupazione — che crede di poter fare tutto da solo. Ma la guerra partigiana è come il calcio, puoi essere bravo e dotato quanto vuoi, ma conta solo il gioco di squadra. [...] La raffica fu improvvisa. Alcuni dissero che i due partigiani non se ne accorsero quasi. [...] Erano i nazisti del famigerato Battaglione Todt. I fascisti dovevano averli avvertiti della sortita dei due partigiani. [...] Berni si gettò su Nico, nell’estremo di ripararlo dalla mattanza di proiettili. Lanciato nell’ultimo tackle disperato. I colpi si susseguirono frenetici e feroci, incessanti e per istanti interminabili. [...] Poi il silenzio. Gli occhi sbarrati, verso il cielo. Con un pugno chiuso che sfida il nemico, come dopo aver fatto un gol decisivo. – Sono Bruno Neri — pensò mentre un filo di sangue divideva la sua fronte in due, e aveva come il presentimento che lo stesso sarebbe successo con la sua vita ed egli non avrebbe potuto più fare nulla né per se né per Nico — Sono Bruno Neri, partigiano e calciatore e sto morendo in un prato verde per la libertà –. Mentre, abbarbicato sul suo compagno senza più forza, il fiato si spezzava, e gli assassini correvano giù dai loro rifugi, ululando come lupi eccitati e assetati di sangue. E tutt’intorno le cime d’erba vermiglie spazzate dal vento gli accarezzavano il viso sorridente, ondeggiando impazzite come le braccia festanti e le teste urlanti dopo un gol sugli spalti di uno stadio. Da “L'ULTIMO TACKLE” di Domenico Mungo
Memoria tradita
"Il dono di riattizzare nel passato la scintilla della speranza è presente solo in quello storico che è compenetrato dall'idea che neppure i morti saranno al sicuro dal nemico, se vince. E questo nemico non ha smesso di vincere."
W. Benjamin, 1940
È notizia di poco tempo fa l’assegnazione di medaglie di onorificenza “in riconoscimento del sacrificio offerto alla Patria” a circa 300 fascisti della Repubblica Sociale Italiana, più conosciuta come Repubblica di Salò, fondata da Mussolini dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943. Tra questi figurano anche cinque militari italiani responsabili di crimini di guerra, come riportato dall’Archivio di Jugoslavia conservato a Belgrado e in alcuni casi addirittura dalla commissione italiana sui crimini di guerra, istituita nel 1946 (per evitare che i presunti criminali di guerra italiani venissero consegnati ai governi esteri, da cui venivano richiesti per essere processati). Dinnanzi ad una tale operazione di rovesciamento della storia che ci riconsegna l’immagine dei carnefici con una medaglia al collo la reazione dei più potrebbe essere di inorridita sorpresa o di virulenta ma passeggera indignazione, nel considerare l’accaduto un errore grossolano di qualche politico o funzionario ministeriale, in malafede o quanto meno un po' confuso sulla storia del secolo breve. In un giorno così significativo come il 70esimo della Liberazione il modo migliore per rendere omaggio a tutti coloro che l’hanno resa possibile è quello di rifiutare una lettura così superficiale del presente, particolarmente pericolosa perché funzionale alla cancellazione della memoria, senza la quale un popolo, reso insieme cieco e muto, rischia di prendere sempre i medesimi e incoscienti abbagli. Ciò che va tenuto bene a mente è che la riabilitazione del fascismo, senza andare troppo indietro nel tempo all’amnistia Togliatti del 1946 che, oltre a lasciare impuniti i torturatori, impedì una epurazione dall’apparato statale del personale fascista (si calcolò nel 1960 che 62 dei 64 prefetti in servizio così come tutti i 139 questori e i loro vice erano stati funzionari sotto il fascismo), ci parla del nostro passato prossimo ma sopratutto della storia presente e futura a cui intere classi dirigenti vogliono condannarci: la responsabilità di tali manovre di revisionismo storico ricade come un macigno non solo e non tanto sui partiti politici di destra che mai hanno fatto mistero di una certa nostalgia per il ventennio, quanto sulla fantomatica sinistra italiana, che per bocca dei suoi più illustri esponenti, ha negli ultimi vent’anni più volte contribuito a sdoganare fascisti e neo fascisti, partecipando ad un discorso nazionalistico divenuto così egemone, un discorso volto innanzitutto a rendere inoffensiva la portata storica della Resistenza, togliendo forza e dignità anche a quelle esperienze di lotta dei decenni seguenti che si richiamavano ad essa. Ad inaugurare il progetto di pacificazione civile fondato su di una ventilata quanto impossibile memoria condivisa — viene da chiedersi come possa esistere una memoria storica condivisa in primis in un mondo sempre più profondamente diviso tra chi sfrutta e chi è sfruttato e soprattutto in un paese come l’Italia che ha da un lato partorito il prototipo di tutti i fascismi e dall’altro ha fondato la sua repubblica su di una Costituzione figlia degli ideali della Resistenza — è stato nel 1996 il pidiessino Luciano Violante che in occasione del suo insediamento alla Presidenza della Camera non trovò cosa migliore da dire che esprimere la sua volontà di comprensione nei confronti delle ragioni dei “ragazzi di Salò”. Si sono dovuti aspettare nemmeno dieci anni per vedere la “sinistra” italiana passare dalle parole ai fatti. Eccoci nel 2007 con la consegna da parte di Napolitano di una medaglia ai parenti di Vincenzo Serrentino, ultimo prefetto fascista di Zara nonché uno dei pochi riconosciuti anche dalla commissione italiana suddetta come criminale di guerra. Siamo alla rimozione pubblica definitiva di ciò che accadde, anche sul confine orientale, in quegli anni di guerra: a combattersi erano da un lato i nazifascisti di Hitler e Mussolini e dall’altra coloro che avevano scelto “di vincere l’oppressione, vincere l’oblio, la pigrizia, vincere il nostro istinto di andare con la corrente senza pensare dove stiamo andando” come ci ricorda Cesare Alvazzi Del Frate, partigiano della Val di Susa oggi ottantanovenne. Se non vogliamo essere nuovamente travolti dalla corrente animata di spietato e opportunistico individualismo e di disimpegno critico che troppo spesso nella storia europea recente ha portato alla catastrofe, sarà meglio tenere a mente i racconti di solidarietà e giustizia dei partigiani perché una volta disinnescata la memoria e l’eredità di tali ideali diventati Storia sarà molto più difficile anche solo pensare di immaginare una via d’uscita.
"In ogni epoca bisogna tentare di strappare nuovamente la trasmissione del passato al conformismo che è sul punto di soggiogarla."
Walter Benjamin, 1940
El futbol, il sole e l'ombra
Breve storia del calcio liberamente ispirata al libro del giornalista e scrittore uruguayano Eduardo Galeano, morto il 13 aprile 2015.
La storia del Calcio inizia quando comincia la storia dell’uomo. Con ogni probabilità è proprio grazie alla palla rotonda che l’uomo scopre la ruota. Certo non c’erano linee, regole e arbitri, si poteva prendere la palla di piede o di mano, ma la libertà di prendere a calci e lanciare un pallone il più lontano possibile ha accompagnato l’uomo fin dalla sua prima comparsa su questa tanto bistrattata terra. Le prime raffigurazioni risalgono alla cultura maya e azteca, alla Cina arcaica, alla Grecia, poi a Roma fino ad arrivare al calcio fiorentino, antenato dei più classici derby da pugni e peae. I reali e l’aristocrazia non l’hanno mai amato il Calcio, un giuoco rozzo e ignorante per ignoranti che lottano nel fango. In Gran Bretagna, i nobili erano molto più avvezzi ai prati verdi da cricket e golf, dove passeggiare amenamente sorseggiando il te e deridendo “quelle piccole anime che vengono saziati dagli infangati idioti che giocano il calcio”, come sostenne nel 1880 il poeta britannico R.Kipling. Il calcio moderno nasce così, tra l’orrore dei ricchi, con le sue linee, le sue regole, con il solo portiere a prenderla di mano e il suo modulo universale, il 2–3–5. Nasce forse proprio per controllare quel popolo così denigrato, per abbassarne la sete di sapere e lasciarlo ignorante, secondo molti intellettuali, uno spettacolo di distrazione di massa. Una puzza sotto il naso da intellettuali, ma non tutti, perché c’è chi si leva subito dal coro e considera il calcio “il regno della lealtà umana esercitata all’aria aperta” (A. Gramsci). Nasce in Inghilterra, ma cresce in Sud America, nelle due sponde del Rio della Plata, in Argentina e Uruguay, importato dagli emigranti inglesi. Si moltiplicano le squadre e diventa lo sport popolare per eccellenza, si mescolano i giocatori e le dfferenze etniche, di provenienza, di ceto, si annientano nel campo. Non c’è supremazia, non ci sono soldi che tengano. Non bisogna avere attrezzatura di qualità, basta una palla e un po’ di fantasia. Si formano squadre ricche di emigranti, ma anche di portuali, di operai, di anarchici e di comunisti. L’interesse che suscita nella gente non sfugge né alle dittature di metà novecento, né soprattutto al mercato. Per Franco, Hitler e Mussolini, il calcio diventa elemento utile alla propaganda patriottica. “Vincere o morire” scrisse Mussolini ai giocatori della nazionale italiana prima della finale con l’Ungheria a Parigi nel ’38. Hitler minacciò di morte la compagine della Dinamo Kiev quando giocò contro una rappresentanza nazista. Sempre, però, il calcio ha offerto le sue storie di resistenza, ne sono prova i calciatori partigiani come Bruno Neri, ne è prova quella Dinamo Kiev, che ripromessasi di perdere per aver salva la vita, una volta sul campo giocò la sua partita e per dignità umiliò i nazisti, salvo morire fucilati con le magliette sudate addosso. E ancora ne è prova la squadra basca Euzkadi che agli albori della dittatura spagnola ha fatto da cavallo di Troia per prendere contatti in Francia e in Europa contro Franco. Un’altra grande pagina di storia della resistenza contro le dittature è stata scritta da Brasileiro Sampaio Socrates, che assieme ai suoi compagni instaurò nel Corinthians quella peculiare democrazia che per prima dimostrò, nel Brasile di metà anni sessanta, come la dittatura si potesse combattere e battere non solo su un campo di calcio. Di piccole e grandi storie resistenti il calcio ne è pieno e non basterebbe certo questa pagina a contenerle tutte, in ogni tempo e in ogni luogo c’è chi si ribella al potere dominante perché il calcio non è altro che lo specchio della società del suo tempo, ne assorbe le gioie e gli umori, i dolori e le ribellioni, le miserie e gli splendori. Così, anche nel mondo attuale, dove vige la dittatura del mercato, se da una parte il calcio tra miliardi, scandali e fallimenti, diventa malaffare, industria e business, dall'altra, piccole storie di resistenza quotidiana possono continuare ad essere scritte tramite l’amicizia, la solidarietà e l’autofinanziamento per viverlo per quel che è: il giuoco del calcio. “Per fortuna nei campi compare ancora, ma molto occasionalmente, qualche impertinente sfacciatello che esce dal copione e commette l’errore di dribblare tutta la squadra avversaria, l’arbitro e poi tutto il pubblico delle tribune, per il puro godere di un corpo che si lancia verso la proibita avventura della libertà".